Perché sono tornati i Naxaliti – Piovono Rane - Blog - L’Espresso

2022-10-22 20:30:00 By : Ms. Helen Peng

Per chi è interessato a sapere qualcosa di più sui cosiddetti maoisti che hanno rapito in India i due italiani Paolo Bosusco e Claudio Colangelo, copioicollo uno stralcio del mio libro libro ‘Premiata macelleria delle Indie’ (2007) dedicato appunto ai Naxaliti. E’ una storia di passato e di presente, di antiche povertà e nuovi sfruttamenti, di civiltà contadine e di globalizzazione a marce forzate.

Il “corridoio rosso”, ormai, copre almeno un quinto, se non un quarto, del territorio indiano. Inizia nel Bihar, al confine con il Nepal, scende verso il Jarkhaland, il West Bengala, naturalmente il Chhattisgarh, poi l’Orissa, l’Andra Pradesh e infine, a occidente, fino al Karnataka. Sono i giornali indiani che l’hanno chiamato così, “corridoio”, per la sua forma verticale, da nordest verso sudovest; “rosso”, naturalmente, perché è pieno di maoisti.

L’idea di unificare o quanto meno coordinare le varie insorgenze locali in una sola “armata rivoluzionaria” si è realizzata nel 2004, quando – dopo quasi quattro decenni di controversie e scissioni – i ribelli indiani hanno fuso i loro principali tronconi nel “Partito comunista indiano (maoista)” e le rispettive milizie nell’Esercito di liberazione popolare (Pla). Il tutto sotto la leadership di Muppala Lakshman Rao, detto Ganapathi.

Quando esplode nel ’67 la rivolta naxalita s’ispira soprattutto da questioni locali: l’arroganza e l’avidità dei latifondisti del West Bengala, la mancata realizzazione della riforma agraria, l’indebitamento che porta molti contadini al suicidio.

Ma in quel periodo, di sfondo, c’è anche la spinta di grandi avvenimenti internazionali: la guerra di liberazione in Vietnam e, soprattutto, la Rivoluzione culturale cinese, iniziata un paio d’anni prima e i cui orrori sarebbero emersi solo parecchio più tardi.

Alla fine dei ’60 i militanti più radicali del partito comunista “ufficiale” (Cpi-marxista), tradizionalmente molto forte nell’India nordorientale, guardano ai fatti cinesi come a un modello di emancipazione delle campagne contro la borghesia cittadina e contro i quadri stessi del partito, “imborghesiti” dall’attività parlamentare.

Il leader di questa corrente è allora Charu Mazumdar, un intellettuale magro e ieratico che ispirandosi a Mao teorizza la rivolta rurale come declinazione terzomondista della lotta di classe e unica strategia per emancipare da una millenaria discriminazione i reietti del sistema castale: i dalit, che costituiscono il gradino più basso della piramide sociale.

Il moto di Naxalbari, del resto, trae le sue origini ideali proprio dalle primissime ribellioni dei dalit, quelle degli anni ’40 con cui i contadini dell’allora principato di Hyderabad si erano rivoltati contro i proprietari terrieri indiani e contro i colonialisti inglesi, infiammando per mesi – inaspettatamente – le loro campagne.

E’ quella che oggi i libri di storia indiana chiamano la “Telengana Rebellion” e che ha segnato la vera nascita della guerriglia comunista in India. In quel periodo diversi “deshmukh”, i signori feudali, erano stati uccisi o costretti alla fuga, mentre le loro terre erano state ridistribuite tra comuni di contadini. Quella fase rivoluzionaria ha avuto termine nei primi anni ’50, con la nascita della repubblica indiana e la riforma agraria che ha abolito le figure dei “deshmukh”.

Ma la “Telengana Rebellion” ha lasciato in eredità l’idea che i dalit potessero rivoltarsi vittoriosamente per rovesciare l’ordine sociale. E vent’anni dopo è esattamente questo l’obiettivo di Charu Mazumdar: un attivista che nel dopoguerra aveva partecipato al movimento rurale e non aveva mai smesso di accusare il sistema indiano di essere ancora improntato a una logica di sfruttamento feudale.

Nel marzo del 1967 si accende così la scintilla di Naxalbari, dove circa 150 contadini armati di archi e frecce attaccano i latifondisti e s’impadroniscono dei campi. Nel giro di due mesi, tuttavia, vengono ricondotti all’ordine con la forza dal governo del West Bengala, in cui il partito comunista “ufficiale” ha un ruolo fondamentale.

In sè, quello di Naxalbari è poco più di un tumulto – una ventina di morti in tutto – tra l’altro fallito da un punto di vista militare. Ma la breve rivolta va a inserirsi in un contesto economico, storico e politico che ne ingigantisce il significato. Represso dal governo locale, e quindi dal partito comunista ufficiale, viene invece salutata come «autentica espressione rivoluzionaria» di là dal confine, in Cina.

Inevitabile, a quel punto, una scissione “a sinistra” del Cpi, guidata dallo stesso Charu Mazumdar. La cui strategia è partire da Naxalbari per dare il via a una sommossa epidemica, nella prospettiva di una lunga marcia come quella che aveva portato al potere Mao Ze Dong una manciata di anni prima.

Nasce così nella primavera del ’68 il Comitato di Coordinamento dei Comunisti di tutta l’India (sigla Aicccr), dichiaratamente filocinese e tuttavia destinato – più che a una lunga marcia – a un’infinita sequela di scissioni, riunificazioni e controscissioni, sempre condite da reciproche accuse di “frazionismo” o “revisionismo”, nella migliore storia della sinistra planetaria. Lo stesso Charu Majumdar già nel 1969 esce dall’Aicccr per dare vita al Partito comunista indiano (marxista-leninista), fondato a Calcutta nella data simbolica del compleanno di Lenin, il 22 aprile.

Il nuovo raggruppamento rifiuta la competizione elettorale, visto come sovrastruttura borghese degli interessi capitalisti, e teorizza la lotta armata, con l’obiettivo di «liberare l’India entro il 1975». Il suo stesso partito, tuttavia, viene presto dilaniato da lotte intestine attorno a questioni più o meno ideologiche, come il sostegno alla corrente di Lin Piao, in Cina. Il quadro si complica ulteriormente per questioni di politica internazionale: quando ad esempio il partito comunista di Pechino chiede ai maoisti indiani di schierarsi contro Delhi e a favore del Pakistan nella guerra del Bangla Desh, la cosa provoca inevitabilmente ulteriori lacerazioni.

Nonostante tutto questo, i primi anni ’70 sono quelli in cui il movimento maoista è più attivo e riesce a provocare piccole o grandi sommosse in diversi stati dell’India centrale, radicandosi soprattutto nella comunità dei Santals nel West Bengala: la più ampia etnia tribale indiana, che aveva sempre rifiutato il sistema delle caste e aveva alle spalle una leggendaria ribellione anticoloniale e antilatifondista alle metà del XIX secolo. La rivolta si diffonde poi tra i Girijans dell’Andhra Pradesh, un’altra etnia di Adivasi, la cui resistenza contro le requisizioni delle terre ricche di bauxite ricorda i recenti accadimenti del Chhattisgarh. Inizia così quella saldatura tra movimento maoista e Adivasi che ancor oggi caratterizza in parte il movimento naxalita.

L’insorgenza, nel diffondersi in campagna come aveva teorizzato Majumdar, assume caratteristiche diverse da Stato a Stato, da regione a regione, in quell’immenso paese che è l’India: sicché alle divisioni di carattere ideologico si sovrappongono i localismi e le differenti istanze dei gruppi rivoluzionari a seconda del contesto specifico. Nell’Andhra Pradesh la rivolta ha il suo apice nei primi anni ’70, con la “liberazione” – durata alcuni mesi e poi repressa a fuciilate – di diversi villaggi nel distretto di Srikakulam.

Nel West Bengala la ribellione contagia, sempre negli anni ’70, gli studenti delle università di Calcutta, parecchi dei quali entrano in clandestinità e scelgono la lotta armata (in una curiosa simultaneità con il terrorismo di sinistra italiano) mentre nelle campagne diversi villaggi vengono ribattezzati con nomi tipo Leninnagar o Stalinpur. Poi l’epidemia naxalita arriva fino all’occidentale Stato del Punjab, dove però si risolve solo in una serie di omicidi di poliziotti e latifondisti. Nel Bihar, terra natale del Buddha, si declina invece in una violenta guerra tra caste, intrecciandosi con i conflitti fra i diversi clan malavitosi che dettano legge nello Stato più arretrato e corrotto dell’Unione.

A tutto ciò il governo di Delhi risponde sempre e soltanto con le armi, ignorando le richieste degli intellettuali di sinistra di realizzare radicali riforme agrarie per eliminare le ragioni profonde della ribellione. Nell’estate del 1971 il primo ministro Indira Ghandi dà il via all’Operazione Steplechase, un enorme rastrellamento congiunto di polizia, paramilitari ed esercito regolare che porta alla decimazione dei quadri e dei militanti maoisti. Nel luglio del 1972 lo stesso Majumdar viene arrestato e muore pochi giorni dopo in una caserma di polizia, tra botte e torture. Diventa così una figura mitica della ribellione: un suo busto è ancora oggi meta di pellegrinaggio proprio nel villaggio di Naxalbari.

Attorno alla metà degli anni ’80 il naxalismo pare un fenomeno quasi esaurito: un po’ perché la strategia militare non va oltre l’assassinio mirato o l’attentato al singolo delatore; un po’ perché i partiti maoisti non riescono a sfondare nel movimento operaio urbano, che rimane nelle mani dei comunisti parlamentaristi; un po’ infine per le continue scissioni e scomuniche reciproche tra i diversi leader naxaliti, la cui ideologia, come ha scritto l’intellettuale Rabindra Ray in uno dei libri più approfonditi sui maoisti indiani, «diventa con il tempo sempre più nichilista».

Negli anni ’90, comunque, dalla galassia della ribellione armata (una quarantina di gruppi diversi, secondo l’Intelligence di Delhi) emergono due forze predominanti, il Maoist Communist Centre e il People’s War, che nel settembre del 2004 finalmente si riunificano nell’attuale “Partito comunista indiano (Maoista)”. Dopo una lunga trattativa, anche le rispettive milizie vengono fuse in un solo esercito rivoluzionario, la People’s Liberation Guerrilla Army, accreditato dagli osservatori di circa nove-diecimila soldati operativi in tutto il corridoio rosso (che loro chiamano Compact Revolutionary Zone) per un totale di 165 distretti sui 612 che costituiscono la repubblica indiana.

Il sogno della People’s Army è creare sempre più zone “liberate” fino a unirle tra loro in una sorta di Antistato. Da un punto di vista militare, però, l’obiettivo pare piuttosto difficile da raggiungere, visto che dall’altra parte c’è un esercito regolare con effettivi per oltre un milione di uomini, escludendo la riserva e i paramilitari, e con armamenti che i naxaliti non si sognano neanche.

Di qui la lunga empasse in cui si è arenata, fino al 2005-2006, la guerra civile: con i maoisti rinchiusi nelle loro foreste ma incapaci di uscirne con prove di forza sufficienti a mettere in ginocchio lo Stato, com’è invece accaduto in Nepal.

La guerriglia epidemica sognata da Majumdar si è invece trasformata in un “terrorismo endemico” che spaventa certamente i soldati spediti nelle foreste, ma cade invece nel disinteresse nelle grandi città. La figura stessa di Muppala Lakshman Rao detto Ganapathi, il leader maoista, fino a poco tempo fa veniva ignorata dalla grande stampa indiana e comunque non sembrava provocare, a Delhi o a Mumbay, le stesse apprensioni che a Kathmandu, durante la guerra civile nepalese, suscitava invece il nome di Prachanda.

Da quando c’è stata la riunificazione, però, i capi del partito vogliono costringere l’establishment indiano a fare i conti con loro e da questa esigenza è scaturito il salto di qualità strategico e mediatico degli ultimi due anni. Così agli attentati del Chhattisgarh si sono aggiunte azioni violente e spettacolari anche in altri stati dell’unione, con lo scopo primario conquistare visibilità a livello nazionale. Nel novembre del 2005 mille uomini armati hanno attaccato la prigione di Jehanabad, in Bihar, liberando circa 350 maoisti detenuti. Nel marzo successivo c’è stato l’assalto a un treno, nel Jharkhand, con il sequestro di 300 passeggeri. Nel giugno del 2006 un’azione di massa contro la polizia di Hazaribagh, sempre nel Jharkhand. E pochi mesi dopo la strage Radi Bodli, nel maggio del 2007, i naxaliti hanno avuto il coraggio di mostrarsi a viso aperto, bloccando in massa le strade attorno a Malkangir, nella zona di frontiera tra Orissa e Andhra Pradesh.

Ma Ganapathi evidentemente non considera l’escalation ancora sufficiente e per questo, nelle sue consuete dichiarazioni di guerra «contro lo sfruttamento e il dominio semicoloniale e semifeudale», inserisce negli ultimi tempi riferimenti sempre maggiori alla necessità di far tracimare la guerra anche nelle maggiori città, Calcutta in testa.

Nella gigantesca, sovrappopolata e disperata capitale del West Bengala, il naxalismo ha vissuto una breve primavera ai suoi albori, quando una parte degli intellettuali e degli studenti universitari si è invaghita della sua utopia rivoluzionaria.

Oggi Kolkata – come si chiama ufficialmente – è ancora una roccaforte dei comunisti, e le bandiere rosse si vedono quasi a ogni incrocio accompagnate da poster un po’ naif sull’emancipazione delle masse popolari. Ma quello che vince regolarmente le elezioni è il partito comunista legale di Buddhadeb Bhattacharjee detto “il Buddha rosso”, ormai su posizioni talmente moderate da sfiorare il liberismo più puro. Coccolato dai maggiori capitalisti indiani – i potenti Birla e i soliti Tata – Bhattacharjee ne sposa ogni iniziativa industriale, anche a discapito degli interessi dei contadini le cui terre vengono regolarmente espropriate o acquistate a prezzi bassissimi per costruire nuove fabbriche.

A Calcutta, insomma, la scissione del vecchio partito comunista è ormai talmente vecchia e stratificata da aver portato quelle che un tempo erano due ali in dissenso su fronti totalmente opposti: da un lato il partito “marxista”, istituzionale e governativo, orientato verso l’economia di mercato come strumento per emancipare le masse dalla loro secolare povertà; dall’altro gli insorgenti maoisti che ora declinano la loro vecchia ideologia in una versione decisamente e rurale e a tratti neoluddista.

Sicché nel West Bengala gli eredi del comunismo indiano rappresentano oggi due blocchi sociali tra i quali la globalizzazione sta scavando un abisso sempre più profondo. La classe operaia legata al mito dello sviluppo a ogni costo – anche al prezzo di allearsi con il grande capitale – si contrappone non più alla sua controparte storica (gli imprenditori) bensì ai ceti agricoli rimasti esclusi dal crescente benessere e convinti che dalla costruzione di nuovi impianti industriali non ricaveranno alcun beneficio, anzi subiranno nuovi torti, come appunto gli espropri.

I recenti casi di Nandigram e di Singur – due zone del West Bengala dove il governo vuole costruire nuove gigantesche fabbriche e i contadini sono scesi in piazza per impedirlo – ha ben rappresentato questa inedita dialettica sociale, con i militanti del partito comunista istituzionale e i contadini che sono arrivati a scontri armati e reciproche, violente vendette.

Gli scontri più aspri sono avvenuti a partire dal marzo del 2007 a Nandigram, 150 chilometri a nord di Calcutta. Qui 14 contadini sono stati ammazzati durante una manifestazione di protesta contro gli espropri di terre finalizzati alla costruzione di un gigantesco impianto petrolochimico del gruppo indonesiano Salim. Nelle settimane successive gli abitanti di una ventina di villaggi hanno scavato trincee lungo i ponti e le strade d’accesso per impedire l’accesso dei nemici – polizia e comunisti -nella loro enclave. Pochi chilometri più in là però c’era la cittadina di Kejuri, roccaforte dei comunisti,sicchè per mesi – tutte le notti – si sono verificati feroci raid nelle due direzioni.

Molta gente è scappata dall’area “liberata” o dalle zone limitrofe ed è finita nei campi profughi realizzati all’occorenza. La case abbandonate sono state saccheggiate da bande criminali o da altri contadini rimasti senza tetto. I medici volontari di Sramajibi, un piccolo ospedale alla periferia di Calcutta, hanno raccontato di aver curato decine di corpi mutilati e donne stuprate di entrambe le parti.

Ma è il caso di Singur – vicinissima a Calcutta – a riguardare più da vicino l’Italia, visto che qui le terre espropriate (o acquistate sottocosto) servono alla Tata per produrre la mitica auto “low cost” di cui si parla da anni, in partnership con la nostra Fiat. Anche a Singur ci sono stati scontri armati e alcuni morti ammazzati. Poi i contadini ribelli sono rimasti per mesi a protestare davanti al muro di tre metri eretto attorno ai mille ettari destinati alla fabbrica.

I naxaliti, naturalmente, cercano di inserirsi in queste contraddizioni: molti loro militanti si sono infiltrati nel movimento contro le nuove fabbriche facendo la spola tra Singur e Nandigram. Dopo il suo nono Congresso, il partito maoista ha esplicitato l’obiettivo di focalizzare le azioni di lotta nelle cosiddette Sez (Special Economic Zones), le aree in cui dal 2005 lo Stato indiano concede vantaggi fiscali e di altro genere per favorire la costruzione di questi grandi impianti industriali.

Spesso la lotta si indirizza anche contro l’edificazione dei nuovi quartieri residenziali che stanno spuntando in modo assai rapido e visibile, uno dopo l’altro, in tutta la provincia attorno a Calcutta, con nomi tipo “Megacity” (che sarà pronta nel 2010) o “Sunrise Valley” (quasi terminata). Ci abiterà la nuova borghesia cittadina, mentre le baraccopoli dei contadini inurbati – le celebri bustees di Calcutta – vengono gradualmente spostate verso la periferia perché siano meno visibili ai businessman locali e stranieri.

Il blog semiufficiale Naxalrevolution è una miniera di foto e video che testimoniano le vessazioni della polizia e le violazioni dei diritti dell’uomo nell’India del 2007, con particolare attenzione per il Salwa Judum. Per fortuna del cybervisitatore, gli orrori sono alternati da clip assai più divertenti come le canzoni filomaoiste degli Asian Dub, gruppo londinese fondato da ragazzi di origine indiana che fa musica reggae-rock-rap-punk impegnata. Il loro brano più citato è ovviamente “Naxalites”: «Sono solo un guerriero naxalita, combatto per la sopravvivenza e l’uguaglianza, la polizia ha picchiato me, mio fratello e mio padre, mia madre in lacrime non poteva crederci…».

Oltre alla musica degli Asian Dub, quelli che in India guardano con simpatia al movimento maoista hanno anche un film di riferimento, “Mother of 1084”, realizzato nel 1998 dal regista di sinistra Govind Nihalani e tratto da un romanzo della scrittrice bengalese Mahasveta Devi. E’ la storia – ambientata nel 1970 – di una madre di Calcutta che viene chiamata a riconoscere il corpo del figlio, un brillante studente entrato in clandestinità con i rivoltosi e quindi ucciso in uno scontro a fuoco (1084 è appunto il numero appeso all’alluce del ragazzo ammazzato, all’obitorio).

Dopo la morte del figlio, la protagonista cerca di capire i motivi che l’hanno portato a scegliere la lotta armata: legge i suoi libri, frequenta i suoi amici e la sua ragazza, torturata a sua volta dalla polizia. Così – mentre il resto della famiglia si vergogna per quel parente divenuto criminale – la donna invece intraprende un viaggio interiore, personale e politico negli ideali rivoluzionari: insomma il film è la “presa di coscienza” da parte di una borghese delle grandi disuguaglianze e ingiustizie indiane. Mai uscito dai confini nazionali, “Mother of 1084” ha tuttavia avuto una discreta circolazione nel paese e ha offerto un punto di vista un po’ diverso su quello che viene spesso considerato solo un problema di ordine pubblico. La stessa autrice del libro, Mahasveta Devi, ha detto di averlo scritto proprio per colmare lo spaventoso “gap comunicativo” che divide, in India, le campagne dalle città: «Chi sta seduto nella sua comoda casa di Calcutta non ha neppure idea della vita in un villaggio senza acqua potabile, strada, scuola, ambulatorio…».

Sempre nella prospettiva di fare conoscere la propria battaglia al mondo, da quando si è messo alle spalle le sue quarantennali divisioni il movimento naxalita sta cercando anche di rafforzare i legami interni e internazionali, finora in realtà poca cosa: sono noti i contatti con le “Tigri” Tamil, in Sri Lanka, con cui i naxaliti si scambiano armi, così come gli altalenanti legami con gli indipendentisti dell’Assam e del Kashmir. Il sogno di Ganapathi, però, è di assumere un ruolo di leadership all’interno del “Ccomposa”, quella sorta di internazionale maoista sudasiatica che dal 2001 riunisce i leader rivoluzionari di India, Nepal, Bangla Desh, Sri Lanka e ultimamente anche Bhutan.

E’ chiaro che non si tratta di movimenti con consensi maggioritari. Ma proprio la recente crescita della ricchezza ha enormemente enfatizzato le iniquità e questo revival in Asia meridionale del maoismo – morto e sepolto da anni in Occidente, abbandonato di fatto in Cina – è un fenomeno innegabile e facilmente comprensibile.

L’esaltazione maoista delle campagne e delle “masse contadine” contrapposte alle “città borghesi” ha infatti trovato terreno fertile nelle conseguenze della globalizzazione: un processo rapido e violento che ha radicalizzato i contrasti e le contraddizioni accentuandoo in modo spaventoso il divario di benessere tra metropoli e villaggi, tagliando trasversalmente la società tra grattacieli e risaie, tra neobenestanti ed eterni proletari.

Ecco perché se in Europa e in America pensiamo a Mao come a un dittatore inetto e feroce, che ha provocato 60 o 70 milioni di morti solo nel suo paese, in Asia meridionale viene invece visto da molti come l’uomo del riscatto rurale, dell’emancipazione dei nullatenenti da un neocapitalismo che a loro non ha (ancora?) portato nulla di buono.

A questo fondamentale aspetto poi se ne aggiungono altri, forse meno immediati da cogliere in Occidente. Come ad esempio la particolare storia del comunismo indiano, in cui i moderati parlamentaristi sono sempre stati filosovietici mentre l’ala radicale, quella favorevole alla lotta armata, era filocinese. Poi c’è anche un’ispirazione strategico-militare, cioè l’ammirazione per la lunga marcia cinese, la “guerriglia a tre stadi” verso la capitale per impadronirsi del potere sulla canna del fucile, anziché con le «chiacchiere dei parlamentari» che portano solo espropri e miseria. Infine, sia per Prachanda sia per Ganapathi, non si può escludere che Mao Zedong rappresenti ormai un “marchio” con cui fare facile marketing politico tra i diseredati, un volto da affiggere sui manifesti e da stampare sulle t-shirt, un po’ come Che Guevara da noi.

Se poi si parla con i leader e con i quadri di questi partiti, se si leggono i loro giornali o i loro siti sul Web, emerge subito come il riferimento ideologico al Grande Timoniere sia in realtà assai lasso e abbia poco a che fare con il suo operato del quando governava la Cina. E’ il blocco sociale che idealmente lui rappresenta, quello dei “left behind” del boom economico, a regalare al maoismo questa nuova primavera di popolarità nelle sterminate campagne in cui si sopravvive a chapati e riso speziato.

Appena arrivo a Raipur, la capitale del Chhattisgarh, mi accorgo che le cose in India non sono semplici come nelle zone di guerriglia del Nepal. La diffidenza è molto più alta e nessuno ad esempio, mi vuole portare nell’area di Dantewara, teatro di scontri militari quasi quotidiani: «Troppo pericoloso, c’è il coprifuoco, bisogna avere dei permessi». E comunque «non c’è niente di interessante laggiù, solo povera gente, capanne e foreste, che ci vuole andare a fare?». Dopo tre tentativi falliti, decido di cambiare città avvicinandomi almeno un po’ alla mia meta e parto dunque per Jagdalpur, un centro più piccolo nel Chhattisgarh del sud.

Dopo cinque ore di viaggio su una striscia d’asfalto gobbosa, dietro a camion lentissimi e stracolmi, la sera in albergo cerco di riordinare le idee davanti alle stampate dal Web portate da casa. E capisco che il distretto del Bastar, attaccato a quello di Dantewara, ha un appeal più credibile e innocuo per un viaggiatore straniero. Sono le tribù indigene preinduiste che fin dai tempi della colonizzazione inglese vengono raggiunte e studiate da qualche antropologo più attento alle culture dravidiche.

(…) Procedendo verso sud in macchina, a poco a poco emergono anche altri aspetti, meno idilliaci, del Chhattisgarh. Le montagne sventrate, ad esempio: giganteschi impianti di estrazione costruiti nel mezzo di niente, con i camion della Tata che entrano ed escono a ritmo serrato, scortati dalle jeep dell’esercito. E poi altre camionette cariche di soldati che ci superano e ci fermano, in posti di blocco improvvisati e piuttosto tesi. E i resti di una stazione di polizia con le pareti nere di un incendio recente. E i cartelli che indicano di non circolare dopo il tramonto. E le donne al fiume che raccolgono sabbia, portandola sulla testa per poi consegnarla a giovani uomini armati vicini ad altri camion.

Fermandomi nei paesini a parlare con la gente, inizio anche a capire quello che mi avevano accennato i colleghi e i blogger indiani. E cioè che in questa parte dell’India tutti gli accadimenti recenti – compresa la rivolta che si è data il nome di maoista – derivano proprio dal combinato disposto del suo territorio e della sua gente.

Il territorio perché, oltre a essere così spettacolare da fuori, nasconde nel sottosuolo le sue ricchezze più preziose: grandi quantità di risorse naturali, uniche in India e particolarmente ambite in una fase di crescita economica come quella che sta attraversando il Paese: ferro, stagno, uranio, ma soprattutto moltissimo carbone (un quinto di tutte le riserve indiane) e bauxite (il materiale grezzo da cui viene tratto l’alluminio).

Quanto agli abitanti del posto, si tratta in maggioranza di etnie preinduiste poverissime, con lingue e costumi propri, che abitano da secoli in piccoli villaggi di fango, organizzati in una millenaria struttura sociale di tipo vagamente matriarcale e in cui l’autorità principale è ancora lo stregone, o sciamano che dir si voglia.

Sono popolazioni che hanno vissuto sempre – più o meno pacificamente – di un’agricoltura e di una pastorizia assai basiche. Ma da quando l’India è entrata nel turbine della globalizzazione, inevitabilmente sulle loro terre hanno messo gli occhi i grandi protagonisti del boom industriale: colossi tipo la Tata (sempre lei), la Essar (altro gruppo indiano dell’acciaio e dell’energia) e altri meno conosciuti da noi, come la Balco Aluminium (azienda parecchio citata nei libri di Vandana Shiva sulle guerre dell’acqua) o il gigante dell’energia National Thermal Power, già statale ma ora quotato alla borsa di Mumbay.

A questo interessamento sono seguiti, dalla seconda metà degli anni Novanta, giganteschi processi di esproprio delle terre, continui spostamenti forzati dei contadini dai loro villaggi in zone meno ricche di materie prime, costruzione a ritmi serrati di impianti di estrazione e una ferrovia per il trasporto delle merci nelle città.

Me ne rendo conto facilmente quando ogni tanto, nel silenzio della vallata, Awesh mi indica un punto scuro lontano: il treno che porta verso Raipur quel ch’è stato strappato alle colline in giornata. Lentissimo, ma altrettanto lungo, una teoria infinita di vagoni stracarichi, e in coda, la merce più riconoscibile: i tronchi di tek, diretti verso un porto lontano per trasformarsi in comò e tavoli da terrazzo. Gli alberi del tek crescono spontanei e coprono ettari ed ettari di territorio; anche le tribù locali ne hanno sempre apprezzato il legno, ma per usi assai più primitivi, come accendersi un fuoco. Ora sono oggetto di un diboscamento intensivo, senza che ai loro naturali proprietari, le popolazioni che fra queste foreste hanno sempre vissuto, arrivi alcun beneficio economico. Anzi, quelli che ci abitano accanto saranno i primi ad essere “displaced” verso aree meno sfruttabili.

La devastazione ambientale è completata dalla ricerca dei diamanti, di cui pure il Chhattisgarh pare assai ricco: sei multinazionali, tra cui il gigante sudafricano De Beers, hanno già individuato le aree di esplorazione, fissando per il 2008 l’inizio degli scavi.

L’arrivo delle nuove industrie – soprattutto dei cementifici e delle miniere – ha l’effetto collaterale ma drammatico di drenare verso questi impianti le risorse idriche, accentuando un problema, quello dell’irrigazione dei campi, già molto sentito da queste parti. Il paradosso è che questa terra è ricca di fiumi e sembra incredibile, attraversandola in macchina, che l’acqua sia diventata oggetto di conflitto. Non sembra irrilevante però il fatto che sette importanti fiumi sono stati privatizzati e diversi altri sono inquinati oltre misura proprio dagli scarichi industriali, mentre il diboscamento incontrollato danneggia ulteriormente il ciclo dell’acqua.

Incapaci di organizzarsi da soli in associazioni politiche o in gruppi di pressione – si tratta di gente analfabeta, che parla soltanto i suoi dialetti ed è spesso dedita all’alcol – molti contadini del luogo hanno quindi maturato un odio feroce e frustrato verso gli uomini armati che vengono a strapparli dai loro villaggi per spostarli da un’altra parte, e nei confronti delle fabbriche che rubano l’anima della loro terra.

Così molti, specie i più giovani, diventano facile obiettivo del proselitismo maoista: barbuti attivisti del Bengala occidentale o attempati intellettuali dell’Andhra Pradesh venuti a spiegare ideologie forse poco comprensibili da queste parti – il leninismo e il maoismo – ma abbastanza attraenti da convincere i figli dei contadini estirpati a organizzarsi militarmente per combattere l’esercito indiano e le multinazionali che prosciugano i loro pozzi.

Parlando con la gente del posto, a Gunda, a Gitam, nella stessa Dantewara dove finalmente arriviamo, finisco per comprendere in modo sempre più chiaro i motivi per cui il movimento naxalita ha trovato in queste aree il terreno più accogliente di tutta l’India. Ascoltando le storie dei villaggi rasi al suolo per far posto alle miniere, dei vecchi e dei bambini costretti ad andarsene per ricostruirsi una casa trenta o quaranta chilometri più in là, dei ragazzi finiti in galera perché hanno provato a opporsi alle ruspe, sembra quasi ovvio che la People’s Liberation Guerrilla Army – cioè la milizia maoista – abbia guadagnato consensi organizzando questa gente in una resistenza armata che negli anni è a poco a poco cresciuta, fino a conquistare il controllo di buona parte del Bastar, soprattutto nella zona orientale.

Sentire quei racconti sulla tracotanza della rampante industria indiana protetta dalle autorità suscita una simpatia naturale nei confronti di una ribellione tutto sommato spontanea e autenticamente “proletaria”, visto che i contadini espropriati e cacciati dalle loro terre sono dei nullatenenti assoluti.

Qualche giorno dopo, tuttavia, ascoltando le testimonianze di altri poveracci che dei naxaliti sono invece stati vittime, la mia distribuzione delle ragioni e dei torti avrebbe assunto connotati d’incertezza molto maggiori.

Avvicinandoci verso l’avamposto orientale di Bhairamgar, ci raccontano anche come vivono i maoisti nei territori che hanno “liberato”. Non si tratta propriamente di un vero Stato nello Stato, com’era invece in Nepal: nella maggior parte dei casi qui il dominio del territorio si riduce a pur vaste aree di foreste i cui villaggi spesso sono stati svuotati dalla stessa guerra civile e da cui i naxaliti escono solo dopo il tramonto per attaccare le basi militari o civili del distretto, o per ammazzare funzionari governativi locali, e quindi rientrare frettolosamente nei loro boscosi territori. Lì dentro, mi raccontano, i maoisti hanno occupato le case dei contadini in fuga e si nutrono soprattutto di cacciagione, perché nessuno coltiva più i campi e le risaie.

C’è però un’area più ampia e più organizzata delle altre, tra quelle controllate dai maoisti. E’ la foresta di Abujhmad, circa quattromila chilometri quadrati di colline dove alcuni villaggi – non più di tre o quattrocento famiglie in tutto – sono rimasti popolati. All’interno i guerriglieri hanno creato anche delle piccole fabbriche di esplosivi, ordigni che poi dal Bastar distribuiscono anche alle altre forze ribelli della People’s Army indiana.

La foresta di Abujhmad del resto ha una fama di impenetrabilità che affonda le sue radici nei tempi più lontani: perfino il Mogul Akbar, nel sedicesimo secolo, aveva rinunciato all’impresa di tassare la tribù locale, i Mària, quando aveva visto che i suoi esattori, pur accompagnati da robuste scorte armate, non tornavano mai vivi in città.

Nel corso degli ultimi due anni, per ulteriore sicurezza, attorno ai confini della zona “liberata” i naxaliti hanno posato centinaia di mine antiuomo, nascoste sotto il fogliame, a scoraggiare ogni possibile accesso alle forze di sicurezza. Le quali infatti infatti se ne tengono bene alla larga: l’esercito di Delhi e la polizia di Raipur si limitano tuttora a sorvolare, ogni tanto, la zona in elicottero, scattando fotografie o girando video.

L’area di Abujhmad è diventata ormai così sicura per i suoi guerriglieri che il quartier generale naxalita ha potuto ospitare qui – nel febbraio del 2007 – il nono Congresso nazionale del Partito Comunista Maoista Indiano (Cpi-Maoist), con un centinaio delegati venuti da tutto il Paese e, secondo l’Intelligence di Delhi, anche ospiti stranieri.

La riunione è stata presieduta da Muppala Lakshman Rao detto Ganapathi, segretario del Cpi-M (in pratica, il Prachanda indiano) ma a fare gli onori di casa è stato Ganesh Ueike, segretario del comitato locale del partito maoista, uno dei pochi capi intermedi naxaliti di cui si conosce l’identità: nell’agosto del 2006 ha concesso infatti un’intervista a un giornalista indiano, che dopo aver attraversato la foresta per conoscerlo, l’ha descritto come «un accademico di mezza età dai modi educati, che tuttavia alle domande risponde solo con slogan ufficiali», salvo lasciarsi un po’ andare solo quando, parafrasando Mao, ha giustificato le azioni di terrorismo spiegando che «la rivoluzione non è un film di Bollywood».

Il congresso comunque è terminato con una serie di risoluzioni su varie questioni, dalla «lotta contro l’hindufascismo» alle «battaglie contro le politiche di globalizzazione, liberalizzazione e privatizzazione in India e in tutta l’Asia». Ma aldilà dei documenti resi pubblici dagli stessi naxaliti, secondo B.K. Ponwar – direttore di un centro di studi filogovernativo sulle attività dei guerriglieri in Chhattisgarh – il congresso avrebbe segnato una svolta tattico-militare dei maoisti, con la decisione di puntare “al cuore dello Stato” mediante attentati non solo agli ufficiali della polizia e dell’esercito, ma anche ai leader politici dei maggiori partiti. Detto fatto, poche settimane dopo un parlamentare, Sunil Mahato, è stato assassinato insieme a tre guardie del corpo mentre assisteva a una partita di calcio a pochi chilometri da Jamshedpur, la città dell’acciaio creata dalla famiglia Tata. Una settimana dopo è stato il turno di Sonuram Sodhi, un esponente del Bjp ammazzato alla stazione ferroviaria di Kirandul. Due omicidi in pieno giorno che hanno convinto molti notabili di partito a non farsi più vedere fuori dai confini sicuri di Raipur o, al massimo, di Jagdalpur.

Il salto di qualità deciso dal nono Congresso maoista deve tuttavia fare i conti con una realtà locale – la “base” – la cui visione politica e strategica sembra abbastanza limitata. Parlando con la gente del posto, si capisce facilmente che questi guerriglieri, i “fantasmi rossi della notte”, non hanno una struttura logistica né una preparazione ideologica paragonabili a quella dei loro compagni nepalesi: è gente che, da quando è nata, non ha mai avuto nulla da perdere e quindi nella latitanza, nella scelta militare, riesce a dare un senso alla propria esistenza comunque più alto rispetto alla vuota vita precedente.

Ma, nonostante questo, i naxaliti sono perfettamente in grado di terrorizzare la polizia e l’esercito, le cui truppe dopo il tramonto se ne stanno ben chiuse nelle loro caserme, circondate da blocchi di cemento e sacchi di sabbia, dietro ai quali i militari più giovani e sfortunati passano le notti con il fucile puntato verso la foresta e il dito pronto sul grilletto: non saprai mai quando i maoisti arriveranno, in quanti saranno, se spareranno solo una decina di colpi per spaventare o assalteranno la caserma per portarsi via i fucili.

e bravo Gilioli che ti interessi anche del resto del pianeta….ma qui abbiamo problemi urgenti e contingenti…. e i naxaliti sono un po’ come erano i marxisti leninisti negli anni 60-70 in italia, dimentichi del fatto che ogni paese ha una sua lunga storia e che ciò che va bene per un paese non è detto che funzioni in un altro……a me piace molto questo pensierino di Mao: “cio’ che ci occorre è uno stato d’animo entusiastico ma calmo, e un’attività intensa ma ordinata” “Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina (1936),Opere scelte di Mao Tze-tung,vol. I…… ecco appunto, non passiamo da rutelli ai naxaliti….pensiamo a come uscire dall’incubo italiano e non disperdiamo energie e pensieri per comportamenti superficiali di turisti a caccia di immagini uniche…

Meno male Gilioli, visto che non c’è un euro per viaggiare possiamo leggere le sue esperienze.

“pensiamo a come uscire dall’incubo italiano e non disperdiamo energie e pensieri per comportamenti superficiali di turisti a caccia di immagini uniche…”

wiwa i turisti superficiali a caccia di immagini uniche…(…)

Il feudalesimo agrario ( esistente attualmente nei paesi più poveri -anche se globalizzati) dovrebbe essere sconfitto -dai governi in carica -promuovendo una nuova legge che imponga l’obbligo legale( nella compra-vendita) di appezzamenti di terreno agricolo non superiori ai 200 ettari di terreno da coltivare.

Agli attuali fittavoli -tramite una legge apposita -dovrebbero essere accordati strumenti monetari bancari atti all’acquisto dei terreni da loro coltivati ( ad esempio tramite mutuo bancario a tasso agevolato).

La schiavitù umana è stata debellata( dal mondo civile) in quanto le condizioni economiche relative al suo sviluppo erano diventate proibitive in tutte le nazioni civilizzate del mondo( gli schiavi umani avevavo raggiunto prezzi sproporzionati!). Per le classi al potere( in allora)era molto più economica la “servitù della gleba”.

@ fiorenza colonici: l’Italia è globalizzata, non una monade senza né porte né finestra cmq penso di aver capito. La Risposta? Dieci anni fa era: Think globally, Act locally

Grazie. Un po’ di chiara informazione non fa mai male.

Gilioli mi hai convinto. Hai trovato un altro acquirente del libro. La migliore pubblicità per un testo ben fatto è farne leggere una pagina. Complimenti.

Ho appena guardato sul sito della libreria online presso cui in genere mi servo. Purtroppo il libro di Gilioli non è disponibile in formato digitale, ma in ogni caso costa solo € 10,50. Ho già da prendere 15 metri lineari di libreria per mettere a posto solo i libri ammucchiati che non so più dove mettere, vorrà dire che due o tre centimetri saranno dedicati anche questo.

aggiungerei, a mo’ di update, il celebre pezzo di Arundhati Roy uscito su Outlook India, che tanto scandalizzò la borghesia di Mumbai: http://www.outlookindia.com/article.aspx?264738

e, per ampliare il contesto indiano di violenza sociale, molto bello La Tentazione dell’Occidente di Mishra Pankaj.

ora è: pensa globalmente e agisci di conseguenza…e dunque via i finti tecnici, giù le mani dalla Costituzione per non arretrare, in tema di diritti, a 250 anni fa…questo a casa mia si chiama pensare globalmente e agire di conseguenza….come ho detto da qualche altra parte, globalizziamo i diritti e delocalizziamo i sindacalistiobsoleti, con la testa piene di ferraglie che non servono più a capire ciò che sta succedendo…..da tutti i miei pensamenti traggo la conclusione che, per uscire dalla crisi, serve il reddito di cittadinanza da estendere alle donne che lavorano gratis et amore dei nelle case e la necessità di ridurre l’orario di lavoro….queste mie ideuzze che sembrano strampalate hanno un validissimo fondamento teorico che non posso esporre qui in tre minuti prima di scendere a stegamare …per la truppa. Prima o poi lo farò…devo organizzarmi meglio…:)

@ Desmod ti seguo a ruota, lo vado a cercare da Feltrinelli…ho libri dappertutto, un posto si trova sempre!

Mi dispiace buttare un duecento film in VHS visti e rivisti ma oncora godibili…ci sono affezionata come ai libri…guai a chi me li chiede e non me li restituisce…(…)

@Gilioli: qui sopra suo refuso: “macelleria” per “macellerie” (altrimenti se lo si cerca nel catalogo nazionale per scovare le biblioteche che lo possiedono non lo si trova col copia e incolla – curiosamente tutte biblioteche da Roma in su, tranne due). Molto opportunamente la biblioteca nazionale centrale ha attribuito il codice Dewey 954.05 mettendolo così assieme agli autori da me citati. Questo per facilitare l’opera di organizzazione degli scaffali di Desmond.

Bravo Gilioli che ci riporta alla dimensione globale dei problemi e rende chiaro come il mondo abbia preso una china unidirezionale di sfruttamento intensivo delle risorse e della distruzione indiscriminata del patrimonio ambientale che non porta sviluppo ma guerre e profitto. Mi viene in mente la TAV e penso che le dinamiche umane, a qualsiasi livello, rimangono invariate. Ci sarebbe da discutere anche quanto sia relativo il termine progresso e di quanto della povertà e miseria altrui ci rendiamo responsabili con la nostra incoscienza e ignoranza della realtà tutti i giorni. Ma è un tema che molti sentono moralista e inutile nella rappresentazione opportunistica di un mondo fatto a compartimenti stagni o di una visione fatalista determinata dalla comodità di occupare i posti migliori. Eppure è il tema di maggior attualità anche oggi in Italia, pure se su di un’ altra scala. Trovo superficiale quindi dire o pensare che dobbiamo restare ai problemi di casa nostra, comportandoci da struzzi. Anzi, uno dei problemi dell’ informazione italiana è sempre stata la scarsa attenzione e approfondimento delle vicende internazionali che ha contribuito al pressapochismo e chiusura del dibattito culturale e politico degli ultimi decenni. Faccio solo un piccolo appunto alla mancanza di una qualche considerazione sul ruolo e sugli interessi della Cina in tutta la vicenda dei Naxaliti, data l’ importanza strategica dell’ area coinvolta rispetto anche alle supposte mire espansionistiche cinesi e dunque al ruolo geo-politico in cui si viene a trovare coinvolta suo malgrado l’ Italia e il suo governo. Ma molto piccolo.

leggendo il racconto ho fatto lo stesso accoppiamento di mau alla Tav. Molto istruttivo il libro di Gilioli con tanti nomi difficili da ricordare, cerchero’ anche il libro consigliato da tonii.Grazie delle preziose informazioni.

Solo un paio di correzioni, anche se immagino che ormai sia tardi per correggere il libro…:)

il nome esatto del gruppo citato è “Asian Dub Foundation” e il titolo corretto della canzone a cui vien fatto riferimento è semplicemente “Naxalite” (”Lyrics to the song Naxalite” mi sa di chiave di ricerca google…:D)

francamente non capisco cosa intendi con le “mire espansionistiche cinesi”.

In ogni caso sta tranquillo che la dirigenza cinese non ha nessuna intenzione di avere alcun genere di contatto coi maoisti indiani. Anzi, considerando che le loro (naxaliti) posizioni sono critiche nei confronti dei partiti comunisti indiani legittimisti, suona piuttosto come un’eco della rivoluzione culturale, contro cui tutto il comitato centrale (cinese), giù fino all’ultima cellula, freme di orrore. Non che con Sendero Luminoso fosse diverso, eh.

Devo dire che anch’io,leggendo la narrazione di Gilioli,ho pensato alla TAV…

Bello! Mi ha divertito il passaggio

˙nella migliore storia tradizione della sinistra planetaria.

Ecco perché se in Europa e in America pensiamo a Mao come a un dittatore inetto e feroce, che ha provocato 60 o 70 milioni di morti solo nel suo paese, in Asia meridionale viene invece visto da molti come l’uomo del riscatto rurale,

Questo mi intriga assai. Concordo sulla visione distorta e condizionata dalla fame per le leggende di riferimento dei contadini che non sanno che Mao picchiava a sinistra come a destra, sui contadini come sui borghesi. Penso anche che in occidente la pensiamo in un modo contorto perché condizionati ancora dalla ipocrisia nonché dalla propaganda anti-maoista (o anti-cinese/comunista) — il pedaggio per lo sviluppo ha un costo. Ci furono milioni di vittime in Cina però il salto l’hanno fatto, dobbiamo aspettare parecchio per conteggiare le vittime indirette in India. Questo è un mio dubbio / interrogativo. In certe realtà, sotto certe condizioni, non far vittime oggi potrebbe portare a molte più vittime domani. ===================================================

Ho trovato anche dei paralleli: qui la Fornero sta sradicando della gente dalle loro terre potate con le lacrime della lagna infinita.

Lo comprerò anch’io, finalmente qualcosa di pesante! Niente di simile dai tempi degli articoli di Luca Cafiero.

Mi riferisco al naturale bisogno cinese di creare una vasta zona di influenza politica ed economica che garantisca l’ accesso alle necessarie risorse per lo sviluppo, prima fra tutte l’ acqua, oltre che di uno spazio territoriale molto ampio che funzioni da cintura difensiva e cortile di casa propria. Non bisogna dimenticare che la Cina ha numerosi contenziosi territoriali aperti principalmente con India e Giappone, ma anche con le ex repubbliche sovietiche e che i suoi interessi raggiungono il Caucaso e non solo Taiwan. Che la Cina abbia svolto una politica espansionistica negli ultimi sessant’ anni è innegabile, come dimostra il Tibet, e la cautela con cui si muova nei confronti dell’ occidente non significa che non esista come dimostra il suo “occulto” intervento nelle vicende afghane. Del resto basta vedere le preoccupazioni delll’ Occidente e come non sia mai calata l’ attenzione e il confronto militare a distanza e talvolta aperto fra gli USA e i cinesi. Mai dimenticare la Corea o il Vietnam che se hanno rappresentato un conflitto ideologico sono però da leggere in chiave imperialista e nazionalistica. Non si tratta di avere affinità con i Naxaliti, ma di quanto può risultare utile la destabilizzazione indiana in quella zona.

SUDESTASIATICO: L’espansionismo cinese nella regione » Le terre …  terresottovento.altervista.org LA NUOVA POLITICA DIFENSIVA GIAPPONESE CONTRASTA L … http://www.agenziafuoritutto.com/…/index.php?... IL CONFLITTO EVITABILE – Governo Italiano – Rassegna stampa  rassegna.governo.it/testo.asp?d=80059339 COME – Terrorismo alla cinese http://www.comecinema.it/SebinaOpac/.do?idDoc. Africa: il G8 promette aiuti, Pechino investe – Estremo Occidente … rampini.blogautore.repubblica.it/…/africa-il-g8- La Cina o il Pakistan? Il dilemma dell’India per una guerra su due … asiafocus.myblog.it/…/la-cina-o-il-pakistan-il-dil… conflitto india cina | Indika http://www.indika.it/?tag=conflitto-india-cina -

Dei Naxaliti non so nulla e nemmeno mi interessa saperne, però io i due turisti glieli lascerei, anche perché sarei curioso di sapere cosa se ne farebbero.

http://terresottovento.altervista.org/2011/01/sudestasiatico-lespansionismo-cinese-nella-regione/ http://www.agenziafuoritutto.com/home/index.php?option=com_content&view=article&catid=159:numero-47-23122010&id=2503:la-nuova-politica-difensiva-giapponese-contrasta-lespansionismo-cinese http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=80059339 http://asiafocus.myblog.it/archive/2010/02/11/la-cina-o-il-pakistan-il-dilemma-dell-india-per-una-guerra-s.html http://www.indika.it/?tag=conflitto-india-cina

Per capire bene il corridoio rosso di cui parla Gilioli mi sono attrezzata con una cartina dell’India trovata su un vecchio numero di Abitare del 2006, una cartina favolosa della rivista con tutta la storia archittetonica delle piu’ importanti citta’ dell’India, mentre Gilioli invece racconta la parte povera.

@Mau: un conto sono gli interessi di approvvigionamento di materie prime, altro paio di maniche è l’ingerenza negli affari interni di altri paesi, altro ancora è invaderli per sottometterli. A differenza della storia statunitense (basti pensare al vietnam, la corea, il laos, l’irak, tutta l’america latina, ma la lista rischia di essere piuttosto lunga…) la Cina non ha perseguito e non persegue nulla di analogo.

Il Tibet che citi è un caso emblematico, visto che fu l’Occidente, nella figura della Gran Bretagna e della Russia, a decretarne l’appartenenza alla Cina (solo la Mongolia cercò per breve tempo di riconoscerne l’autonomia).

“L’innegabile politica espansionistica” è semplicemente un fantasma non suffragato da alcun fatto reale. Se non il sempre evocato (a vanvera) “pericolo giallo”. L’unico caso interessante che citi potrebbero essere i pattugliamenti congiunti antipirateria sul Mekong, da pochi mesi in atto, ma allora che dire dei militari italiani nell’oceano indiano? Politica espansionistica di Roma nei caldi mari del sud? In ogni caso immaginare che la Cina caldeggi turbolenze presso i suoi vicini, India compresa, è totalmente fuorviante.

<mau 13:00> … che non porta sviluppo ma guerre e profitto.

Scusa, ma io non riesco, manco se mi sforzo, a vederla così in bianco / nero. È innegabile che porta sia l’uno che l’altro.

<annamaria 14:26> Devo dire che anch’io,leggendo la narrazione di Gilioli,ho pensato alla TAV…

<Prof. Ponti, su La 7, ±> Valsusani? E chi se ne frega! Non me ne frega un cazzo! Quello che conta è l’utilità per il paese. Se l’opera è utile per il paese i valsusani devono solo accettare i risarcimenti e stare zitti. Parliamo nel merito della utilità.

francamente non capisco cosa intendi con le “mire espansionistiche cinesi”.

In ogni caso sta tranquillo che la dirigenza cinese non ha nessuna intenzione di avere alcun genere di contatto coi maoisti indiani

Francamente mau ha colpito nel segno mentre pare che tu non ci arrivi perché i tuoi ragionamenti sono basati sulle presunte simpatie e opportunità politica di contatti pubblicizzati. Nessuno qui parlava di dirigenza — è più che chiaro che si parlava dello stato con i suoi interessi geostrategici. =======================================

Guarda che quello lì non ci arriva. È un troll involontario reggicoda e sventagliatore di carapace.

p.s. Come vedi, caro tonii, anch’io posso denigrare aggritis, anche io posso fare come il tuo compare. ===================================

Piccola, non ci credo! Sei andata sull’atlante? Prova a fare un volo con google. Fa finta che si tratti un volo di ricognizione in vista di bombardamenti della Tata.

p.s. allegro per via della primavera e buon vino. ciao

e.c. c.c. f. p.q.

nella migliore delle tradizioni della sinistra planetaria.

Caro Volty la storia dell’India mi ha sempre appassionato, comprai la rivista Abitare costosissima per me sette euro nel 2006, era un numero dedicato all’India,la sua cultura e la sua architettura verso il futuro, la cartina era all’interno…ho notato un errore, Gilioli nel racconto sul corridodio rosso parla di Jarkhaland, la cartina scrive Jharkhandgal, credo sia errato il nome sulla cartina. Poi comprai anche sempre per conoscere l’India Upaya di Romina Power…DVD e libro una vera sola. Scusa Volty ma leggere e vedere i luoghi di cui si parla è tutta un altra cosa. Ciao, vacci piano col vino!

sono zone molto poco battute da visitatori ..viene il sospetto che abbiano controllato i passaporti prima di rapirli in questo momento il nostro paese ha qualche problema diplomatico con l’India e le organizzazioni lo sanno bene forse valutano che in questo specifico momento sia lo strumento di possibile ulteriore pressione sul governo di Delhi

@tonii “un conto sono gli interessi di approvvigionamento di materie prime, altro paio di maniche è l’ingerenza negli affari interni di altri paesi, altro ancora è invaderli per sottometterli…….la Cina non ha perseguito e non persegue nulla di analogo”.

Avventato affermarlo, la logica e la storia dicono il contrario. http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_sino-vietnamita

Per quanto riguarda il Tibet, penso che tu ti riferisca al trattato di San Pietroburgo del 1907, ma poi ci sono stati la rivoluzione cinese del 1911, l’ abbandono dell’ ultima postazione militare cinese nel gennaio 1913 e la dichiarazione d’ indipendenza tibetana il 14 febbraio 1913. La stessa ONU, nel 1959, nel 1961 e nel 1965 emanò ben 3 risoluzioni in cui dichiarava il Tibet “uno stato unito, libero e indipendente”.

Mau, scusa se insisto, ma la guerra sino-vietnamita è il classico esempio di azione ritorsiva priva di scopo di occupazione. Piuttosto ricorda gli scontri coll’URSS sull’Ussuri (che hanno in comune anche il fatto che non si conosce chi abbia cominciato, visto che le due parti se lo sono sempre rinfacciato, oltre che la porzione minima del teatro di guerra).

Quella vicenda va piuttosto inquadrata nell’alleanza tra USA e Cina per sostenere il regime di Pol Pot che con Sihanouk fomentavano la guerriglia antivietnamita dalle basi Thailandesi. Deng Xiaoping la presentò come “da da pigu”, una “sculacciatina”.

Del Tibet, aimè, la dichiarazione unilaterale del 13 vale come quella della padania, visto che non fu riconosciuta da alcuno. Preceduta dall’invasione britannica di Lhasa – tanto per mettere i puntini sulle i. E per quanto riguarda l’ONU mai il Tibet fu riconosciuto né mai ebbe un seggio.

Tutto questo è ben noto, e ci insegna che la rappresentazione caricaturale della Cina non aiuta a capire, che il distingue frequenter dovrebbe essere la norma, proprio per non immaginare chissà quali collegamenti tra l’attuale dirigenza cinese e dei poveri disperati che si battono nelle regioni indiane in nome di un “maoismo” che è a sua volta il riflesso di un rivolo che parte da molto molto lontano, più da Treviri, Parigi e Pietrogrado che da Pechino. Certamente non la Pechino post 1969.

Ma infine ammetti tu stesso che la Cina interviene, militarmente e non, negli affari degli altri stati quando entrano in gioco i suoi interessi e la sua politica nazionale, e non mi vorrai dire che sono interessi piccoli e irrilevanti, ininfluenti sull´assetto geo-strategico e rasserenanti. Non sto parlando di militarismo espansionistico come poteva essere quello giapponese degli anni trenta, ma del naturale bisogno di una potenza mondiale di possedere spazio vitale e della necessità strategica di avere una zona cuscinetto fatta di stati amici e controllabili attorno al proprio nucleo territoriale. Tanto che avevo scritto per cercare di evitare confusioni “data l’ importanza strategica dell’ area coinvolta rispetto anche alle SUPPOSTE mire espansionistiche cinesi”. Se ci metti tutte le rivendicazioni territoriali poi, si arriva a una chiara forma oggettiva di espansionismo, a partire dal Tibet che di sua volontà volle mantenere l’ isolamento, pensando che bastassero le montagne a proteggerlo e rifiutando l’ ingresso nella Società delle Nazioni. Bastano le carte bollate e l’ ingenuità di un popolo con la colpa di abitare grandi appettibili territori per dire che non di espansionismo si tratta ma di legalità armata? Come la racconteresti la corsa americana ad occupare i territori dell’ ovest? Non fu espansionismo? O le pretese sui Sudeti, l’ annessione dell’ Austria? In quanto ai Naxaliti, quello che avrei voluto sapere è se esistano rapporti noti con la Cina e con i maoisti nepalesi, e quali, possano essere, se esistono, i vantaggi cinesi di una permanente destabilizzazione della regione, sia in termini di penetrazione economica che politica e soprattutto militare. Il problema di cosa sia da definire “Cina” territorialmente, sotto certi aspetti è simile a quello di Israele. C’è uno stato riconosciuto e legittimo, ma ce n’è anche un altro storico e geografico fonte di controversie,tentativi espansionistici, rivendicazioni e conflitti. Con la differenza che le conseguenze di eventuali acutizzazioni ed escalazioni non resterebbero circoscritte solo alla striscia di Gaza.

vaben, vaben, toniiiii, g’avemo capio, tuti quei mandorlai so’ boni come el pan semo stupi’i noi che se armemo

proprio per non immaginare chissà quali collegamenti

nissuno lo g’ha dito, ti ti xe ti che te imagini, tuto da so’o

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